MASCHERE E OMBRE

 

Invariabilmente ogni ragazzo che arriva mi squadra da capo a piedi, con sorpresa e sospetto, e le domande che pongono sono più o meno tutte dello stesso tenore:

“E tu chi cazzo sei? Non mi pare d’averti mai nasato prima d’ora. Stefania, si può sapere da quale archivio hai riesumato questo tardone?”

Quando l’interpellata rivela che si tratta di un suo caro amico, di un fantastico professore capace di interessarla alle cose dei libri, che sa dialogare con lei anche dei suoi problemi più drammatici e conosce la vita, diverso un casino dai loffi rompiballe della scuola, all’unisono dalle loro bocche sgorgano mugolii di non ardua interpretazione e battute di dissenso per una presenza tanto inappropriata allo stile del raduno: ma è un investimento d’attenzione molto effimero, subito azzerato dall’incombenza di ben più stimolanti argomenti.

“Non dobbiamo illuderci, compagni, la rivoluzione non sarà una passeggiata per nessuno, come Francesco ancora tanti altri saranno massacrati, in marzo abbiamo dato al sistema uno scrollone pazzesco, per tre giorni i porci borghesi hanno tremato e se la sono fatta addosso, le bombe e i carri armati si sono dimostrati tigri di carta contro la nostra maturità rivoluzionaria; cessata la cacarella, agli stronzi revisionisti traditori, come Zangheri e Berlinguer, e ai luridi fascisti di sempre, come Andreotti e il boia Catalanotti, gli è presa una rabbia tremenda per la botta bruciante sul culo di marzo e adesso la parola d’ordine è violenza e repressione contro i proletari, vendetta e diffamazione per lo spago ingoiato. Così Diego, Sandra, Elio, Oscar e Patrizia con cento altri compagni in tutta Italia sono stati sbattuti nelle galere, ammanettati dietro imputazioni grottesche costruite col concorso di spiate falsissime dei rottinculi che hanno la spudoratezza di definirsi ancora comunisti. E tutti noi siamo ricercati, basta una nostra parola non prudente o la soffiata d’un venduto sulla nostra fede politica alla questura, in un amen ci ritroviamo dietro il filo spinato di uno dei tanti lager che il potere sta mettendo su in fretta e furia un po’ dappertutto”.

“È chiaro il disegno che sta sotto l’intimidazione e la macchinazione di stato: prima che sia troppo pericoloso per la sopravvivenza delle istituzioni borghesi, il movimento rivoluzionario e proletario deve essere decapitato, privo di avanguardie esso andrà inevitabilmente e in quattro e quattr’otto allo sfascio; questo suppongono nelle loro teste di merda gli strateghi del sistema. Ma scazzano, come sempre quelli che stanno dalla parte sbagliata, contro la classe operaia: perché non sono le avanguardie a trascinare il movimento, il movimento è la vita, forma in sé senza smettere mai i propri leader, esso è tutto avanguardia e quindi invincibile, la storia insegna che le masse proletarie coscienti nessuno le può spazzare via!”

“Sì, sì, sarà anche come dici tu, ma soprattutto dopo l’isteria collettiva provocata dal prelevamento di Moro e dalla sua esecuzione attuata dalle Brigate Rosse nello spirito della giustizia proletaria, noi diamo l’impressione di essere diventati mosci e titubanti, forse d’avere paura, addirittura d’essere disposti a pigliarlo nel culo dalla borghesia vendicatrice senza neppure tentare di collocare le chiappe in posizione di difesa. Ecco, compagni, un’analisi spassionata evidenzia che noi ci siamo lasciati scivolare via tra le dita l’occasione rivoluzionaria, passerà un secolo porcoddio prima che riusciamo di nuovo a prendere in pugno il controllo della storia, abbiamo sbagliato da stronzi in marzo, dovevamo affondare il coltello fino al cuore della borghesia, ce l’avremmo fatta di sicuro se a un certo punto non ci fosse mancato il coraggio di volere tutto, perché in quei giorni il vento della storia soffiava gagliardo alle nostre spalle!”

 

Davvero, che cosa diavolo ci sto a fare io in mezzo a quest’aggregazione lievitante di adolescenti, percorsi da intricati flussi di mania sovvertitrice e palingenetica, le cui rabbie, festosità ed abbattimenti mi risultano come quasi sempre immotivati ed incomprensibili? Perché, come troppo spesso mi succede al cospetto di ostinate intenzioni, mi sono infine piegato alle insistenze di Stefania, accettando contro logica e voglia di mischiarmi ai riti ludici e politici di questi individui che, pur quotidianamente praticati per costrizione professionale, permangono a distanze siderali da me?

“La imploro, professore, non continui a negarsi, capisco che stare con giovani pieni di confusione e incapaci anche di divertirsi può essere fonte di noia mortale per lei, ma abbia un briciolo di compassione per una derelitta che si arrabatta ad organizzare un intrattenimento alternativo alla festa tutta mondana e borghese che i miei vecchi si sono incaponiti di dare per i miei diciotto anni. Ne va del mio buon nome tra i compagni. Lei dice cosa c’entra in questo? Anzitutto se ci sta significa che tiene in un minimo di considerazione anche il mio desiderio e non preferisce al cento per cento il modo di vivere e di divertirsi degli anziani, che ci guardano con sempre più sospetto e ci odiano. Poi se lei partecipa mia madre si tranquillizza, mi dà il permesso, forse non m’accusa più di volere sporcare la sua casa facendoci entrare dentro delinquenti, drogati e pervertiti. Lei inoltre è così bravo nella discussione e riconosce le varie facce dei problemi: non tutti, ma i più svegli ed appassionati tra i compagni del movimento avranno piacere di analizzare con lei le questioni che ci toccano ed eccitano”.

 

Non essendo stato capace, il giorno dopo la proposta dell’allieva, di sottrarmi all’invito della signora Felicori che si degnava di associare me (provvisorio conoscente casualmente capitato in quest’orbita elevata come precettore privato – retribuito ad ore – dei tre figlioli del grande industriale così cauterizzati contro il dissesto della pubblica istruzione) alla gente di rango chiamata a raccolta per degnamente solennizzare la maggiore età della signorina Stefania, anche per annacquare con quest’ulteriore compromissione, di segno contrario però, il disappunto che mi rodeva per aver piegato il capo al privilegio-imposizione, contro tutti i miei teorici principi di avversione morale ed ideologica senza scampo a questi somari danarosi, mistificatori e parassiti, avevo, sommerso dal tedio, bloccato l’ultima petulante carica dell’allieva, garantendole che sarei intervenuto, prima del gran gala, alla sua controfesta pomeridiana.

“È proprio inutile che tu ti sforzi di ragionare, di politica e di strategia rivoluzionaria tu non hai mai capito e non capirai mai una sega, ma non devi mica preoccuparti, anche i tardi di mente possono dare il loro bravo contributo alla causa, c’è bisogno di galoppini, di gente disciplinata da usare per le scritte sui muri e per cancellare quelle del nemico, di militanti fegatosi e poco riflessivi che, quando bisogna menar le mani, sanno stare in prima fila e colpire, senza impegnare il cervello in tante elucubrazioni!”

“Voi ciucciate tutto il santo giorno l’idea della rivoluzione, ve la raccontate per filo e per segno ed io sono sicura che non la farete mai ed è anche meglio così, se vi capitasse davvero di sconquassare la società sarebbe peggio di adesso, perché in testa avete sempre le vecchie idee del dominio e del potere, non capite che la rivoluzione vera ognuno può cominciarla subito, strizzando fuori dalla propria testa perfino l’idea della violenza, rifiutando i principi che venera questa repellente società capitalistica, esaltando la vita, il corpo, la natura; per stare al mondo sereni c’è bisogno di quasi nulla, occorre soltanto gustare con tutta intensità ogni piccolo sapore del tempo che passa. Voi non avete intenzione di liberare l’umanità ma di costruire …..”

“E smettila di rompere, reazionaria di merda, fascista, con queste opinioni del cazzo! Con le tue lagnose prediche all’immobilismo, alla contestazione non violenta dei sistemi borghesi non caverai mai un ragno dal buco, fai giusto il loro gioco, lo capisci o no, stronzetta? Certo, quando avremo costruito il vero comunismo, i parassiti smidollati non li potremo sopportare, individui come te che si accontentano di un mucchietto d’erba al giorno, danno via la sorca a tutti quelli che hanno i coglioni un po’ appesantiti, si guardano attorno senza mai indignarsi, con un perenne sorriso ebete sul faccino, certo li metteremo alla frusta, per il loro bene! A proposito, Letizia: è vera la voce che corre in giro secondo la quale tu non hai difficoltà a lasciartelo mettere nel culo se uno è preso dalla voglia di provare la scopata anale?”

“Questo è intollerabile, indegno di un vero compagno”, lo aggredisce strillando inviperita una ragazzona vestita da zingara, “anche se le convinzioni della compagna Letizia possono essere e secondo me sono errate, è da porci insultarla per questo e trattarla da puttana, la maturazione del movimento non avverrà mai se tutti i suoi membri non riusciranno a purgarsi da due carie puzzolenti: lo stalinismo che molti di noi avversano solo a parole ma in realtà ne sono intrisi e la tendenza durissima a morire a ritenere la donna un oggetto buono solo per il trastullo del guerriero, un corpo col cervello scivolato senza scampo nella figa; invece noi siamo e vogliamo essere riconosciute protagoniste alla pari nella lotta rivoluzionaria: compagni, per compiere un decisivo salto di qualità il movimento deve convertirsi in massa alle impostazioni di fondo del femminismo!”

 

La provocatoria esortazione che ha coagulato gli interessi fino ad ora atomizzati dei presenti (una ventina all’incirca, e il flusso degli arrivi s’è da tempo esaurito, giovanotti barbuti e trasandati e alcuni giovin signori tirati a lucido, ragazze infagottate in stracci e signorinelle d’alta classe valorizzate da trucchi sapienti, tutti pigiati in un saloncino svuotato d’ogni mobile e cosparso di una imponente quantità di cuscini policromi, all’apparenza uniformati dall’adesione all’ideologia dell’ultrasinistra, nella varietà proliferante per altro delle sue diramazioni, d’arduo intendimento nell’intrico d’analogie e contrapposizioni) produce un’insorgenza dissonante di consensi e ripulse, nel tentativo di sopraffarsi a vicenda ogni voce incollerita confluisce indistinta nelle antagoniste, per non poco tempo un urlio amalgamato vortica senza senso nella stanza.

Io, Dario Loreti, professore di belle lettere come si diceva in tempi più cerimoniosi, più ipocriti e meno schizofrenici, approfitto della baraonda per astrarmi da questa esemplare confusione ideologica e fissare la mente su questioni mie, di banale rilievo oggettivo d’altronde.

Con la schiena precariamente appoggiata contro la parete, sto incastrato tra una brunetta procace che tende a sdraiarmisi addosso, molto tumultuante in questo momento – ad  libitum ho l’agio di adocchiarle, selvaggi e frastornati per la partecipazione corporea alla diatriba appassionata, entro la maglietta gialla trasparente, i pingui seni – e un tizio smilzo, anzi magro all’inverosimile, per la foggia dei capelli, i baffi, il pizzo e la modellatura della faccia sosia stupefacente del cardinale Richelieu, molto puzzolente, di sudore, di pessimo tabacco, di non asportata sporcizia.

Le lezioni private costituiscono una delle attività più scoccianti della vita ed io ho sempre cercato di evitarle come la peste: ma potevo resistere alla proposta piovutami giù dal cielo, in una contingenza tra l’altro di accentuato dispendio finanziario, di erudire i tre rampolli dell’ingegner Felicori, per trarli dalle secche dell’ignoranza irrobustita dalla frequenza della pubblica scuola, considerato che per nove ore settimanali di intrattenimento, in spregio a tutte le usanze e le tariffe di questo mercato, il dovizioso industriale mi sgancia una busta pesante all’incirca come quella elargitami dallo Stato micragnoso e svalorizzante per un mese intero di qualificate fatiche didattiche?

 

Pur fanatica quasi tutta della rivoluzione da far scoppiare senza indugio, perché il tempo propizio al ribaltamento del sistema capitalistico è finalmente calato, la bella gioventù qui aggrumata non disdegna d’approfittare con smodata ingordigia delle raffinate cibarie e delle bevande di ogni sorta che incessantemente due domestici mettono a disposizione, strisciando, invero con mirabile capacità nel tenere in equilibrio orizzontale i vassoi, tra i corpi sparpagliati qua e là: poiché io per principio non m’affanno nell’arraffamento, finora a malapena sono riuscito ad attrappare qualcosa, rimasugli per lo più disdegnati dalle dita più solerti dei miei occasionali compagni di celebrazione.

“Ecco, ne ero sicura, qualcuno fa il furbo anche se io vi avevo tutti preavvertiti di non provarci assolutamente” sovrasta le altre la voce preoccupata della mia allieva Stefania, “ragazzi, mettete immediatamente via la roba, se quelli di casa mia se ne accorgono, io passo un brutto guaio e dovrò pagare per la vostra colpa fino alla consumazione dei secoli ma neppure a voi andrà liscia ve lo posso garantire!”

La perorazione viene assorbita nel più completo disinteresse dagli astanti, anzi suscita effetti di plateale reazione, poiché man mano gli spinelli transitanti di bocca in bocca proliferano. Quando il tizio sudicio con faccia alla Richelieu pretende che anch’io m’associ al rito, io risolutamente mi sottraggo, gli rificco tra le unghie la canna rifiutata.

Quello mi scruta meravigliato e s’adonta: “Senti tu, lurido figlio di puttana, si può sapere perché cazzo sei venuto a stare qui in mezzo a noi, visto che non fumi, non mangi e dalle labbra non t’ho ancora sentito sputare uno straccio di parola?”

“Premesso che a fornicare con tutti e a generare sciaguratamente chissà con chi una blatta come te è stata mammetta tua, si può sapere che cosa diavolo vuoi e perché provochi? Io mi comporto in tutto come m’aggrada, se a te non garba chi se ne frega, fatti dunque i puzzolenti affaracci tuoi e non t’azzardare più a stracciarmi l’anima!”

 

Con tutta probabilità sarebbe insorta una cospicua controversia tra lo squinternato e lo scrivente se un paio di accadimenti in sequenza non fossero intervenuti a differirla e quindi a sopirla, per perdita di pregnanza ed attualità: dapprima la comparsa in scena di una grande pignatta fumante ricolma di tortellini in brodo, che scatena in tutti una irrefrenabile bramosia di degustazione, quindi, tacitati con abbondanza di fruizioni i desideri della gola, l’insorgenza di una eccitatissima diatriba di gruppo, ad animare la quale da opposte sponde ermeneutiche si distinguono un ragazzo tarchiato dalle guance imporporate, vuoi per la magmaticità dell’indignazione che lo intride da capo a piedi vuoi per la stramisura di vino e maggiori alcolici ingollata, e la fanciulla Letizia, già prima tuffatasi in una contrapposizione argomentativa e dileggiata per le sue supposte inclinazioni sodomitiche.

“Così, stronza di merda da tutti inculabile, io sarei un rivoluzionario da strapazzo, buono soltanto a cianciare di lotta armata ma in realtà paralizzato dalla paura quando l’occasione d’agire davvero si presenta? Ma tu, zoccola diffamatrice, dov’eri in marzo, quando io in mezzo e alla testa dei compagni affrontavo e attaccavo le orde poliziesche, lanciate dai capitalisti a reprimerci dopo l’assassinio del povero ed eroico Francesco Lo Russo, incurante delle loro raffiche di candelotti lacrimogeni? Ricordi l’assalto all’armeria di via de’ Castagnoli? Di chi è stata secondo te l’idea dell’impresa e chi ha guidato l’attacco? Quando la reazione poliziesca ha prevalso ed ha ricuperato le armi di cui ci eravamo impossessati, mancavano però all’appello due fucili e numerose munizioni: chi credi che si sia assunto il pericolosissimo compito di custodirli, in attesa di farne buon uso quando si presenterà l’occasione propizia? In settembre tutte le forze rivoluzionarie d’Italia e d’Europa sommergeranno Bologna, per dare vita a una grandiosa manifestazione di forza: chi supponi che sia il capofila dell’organizzazione che tiene i contatti anche con le Brigate Rosse, appena reduci dalla trionfale impresa del sequestro e dell’esecuzione rivoluzionaria del nemico del popolo Aldo Moro?”

“D’accordo, d’accordo, puoi anche smetterla di cacciare panzane, al tuo confronto Vladimir Lenin non era niente più di un apprendista stregone della rivoluzione!”

 

Così sbeffeggiato dalla sua irridente contradditrice, il tizio si accinge a replicare, ulteriormente pervaso di furore; incombe il rischio di una assai imbarazzante degenerazione della querelle, Stefania palesa la sagacia di coglierlo, si interpone con risolutezza da padrona di casa e con diplomazia di ragazza in grado di far fronte alle sue responsabilità:

“Ora basta voi due, le vostre ragioni le avete espresse anche con troppi dettagli e le abbiamo tutti capite fino in fondo: a questo punto a me, ma credo anche a molti altri dei presenti a questa festa, interessa sentire, a proposito del tema della rivoluzione, un punto di vista probabilmente assai diverso e comunque più carico di conoscenza e cultura, quello del mio ospite particolare, il professor Dario Loreti, approfitto di questo momento per presentarlo di nuovo a tutti voi e per ringraziarlo della pazienza che sta dimostrando stando qui ad ascoltare i nostri discorsi probabilmente insulsi per lui”.

All’improvviso e inaspettatamente chiamato in causa, sollevo sul volto grazioso di colei che mi vuole coinvolgere uno sguardo interrogativo:

“Mah, non sono per niente sicuro, signorina Stefania, che le mie idee sull’argomento propostomi possano interessare anche minimamente voi tutti, venuti qui per divertirvi; poi su quali aspetti mi dovrei soffermare, concernenti la rivoluzione?”

“Sì, sì, dicci come tu la vedi in proposito”, mi sollecita eccitato un ragazzo dagli occhi lucenti forse per via degli alcolici ingollati, “è alle porte il tempo della rivoluzione? Verrà finalmente spazzato via una volta per tutte l’ordine, anzi il disordine, borghese? Si imporrà anche in Italia la dittatura del proletariato?”

Stranamente tutti stanno ora in silenzio, evidentemente in attesa delle mie sentenze: occorre proprio che mi risolva a dire qualcosa, almeno per non fare la figura dell’imbranato al cospetto della mia allieva.

“Ebbene, mi dispiace per voi, ragazzi, ma non posso in alcun modo aiutarvi a coltivare i vostri sogni. Nel senso che non ritengo proprio imminente una rivoluzione globale, tipo quella russa del 1917, se voi vagheggiate qualcosa del genere. Anzi, sono dell’avviso che pure l’assalto all’apparenza clamoroso delle Brigate Rosse allo Stato in effetti, a prescindere dal tragico assassinio di Moro, niente sia più d’una puntura di spillo, d’una scalfittura, sanata la quale non resterà nulla di nulla. E dunque niente più rivoluzione, né ora né mai”.

“Ma di che cazzo sproloqui, lo sanno tutti che le gloriose Brigate Rosse hanno colpito a morte il cuore dello Stato, così preparando il terreno allo scoppio della rivoluzione proletaria globale!”

“No, sono convinto che si tratti di un’illusione, per chi ancora crede che il riscatto degli oppressi si possa realizzare solo attraverso una violenta convulsione rivoluzionaria, e comunque di una tesi completamente errata. Per il semplice motivo che lo Stato non ha un cuore, intendendo con tale termine un organo dal quale dipenda l’esistenza stessa dello Stato. Esso, nelle società complesse moderne e contemporanee, è policentrico, e quindi per estinguerlo occorrerebbe azzerare tutti i numerosi gangli che ne alimentano la vita. Esito questo che potrebbe, in linea virtuale, provocare l’insurrezione contro lo Stato di una percentuale molto consistente della società civile. Ma di certo le Brigate Rosse non sono riuscite a coagulare consenso attorno alle proprie strategie, anzi, hanno ottenuto l’effetto opposto, ovvero sia un compattamento di tutte le forze politiche, comprese quelle tra di loro maggiormente antagoniste, contro i metodi e le finalità eversive da loro professati”.

“Quindi, in base alla sua teoria”, interloquisce un ragazzo alto e magro, appropriatamente vestito e inforcante occhiali dalle spesse lenti che fin qui non è entrato nel mio campo visivo, “la rivoluzione è tecnicamente impossibile. E quelle scoppiate in passato allora, vittoriosamente condotte e concluse dagli insorti con il totale sovvertimento degli assetti sociali, politici ed economici precedenti? Intendo l’americana, la francese e la russa, soprattutto, tanto per ricordare le più note a tutti”.

“Non ho sostenuto che in assoluto una rivoluzione non possa raggiungere gli obiettivi di partenza, chiari o confusi che siano nelle menti dei suoi promotori. Affermo invece e soltanto che uno stato democratico, fondato su un diffuso consenso popolare, nel quale il potere sia ampiamente disseminato entro una pluralità di organismi e di soggetti, è quasi impossibile che possa venire abbattuto dall’opposizione violenta di frange sociali quantitativamente esigue. Anche se queste riescono, come nel caso di Moro, ad assassinare un capo, magari proprio il più eminente e potente, lo stesso viene con rapidità sostituito, dopo un breve lasso di smarrimento, esecrazione e commozione per l’amaro destino della vittima. Succedeva così, ricordate, pure tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del corrente secolo, allorché vennero ammazzati, dagli anarchici, re, presidenti di repubbliche, capi di governo, una imperatrice: altri prendevano il posto dei giustiziati e le cose hanno continuato più o meno nello stesso modo, per gli appartenenti alle classi oppresse. In quanto alle tre rivoluzioni citate, se ci fosse tempo di analizzarle e l’occasione fosse più adatta a tale lavoro di interpretazione, si scoprirebbe con facilità che le loro tipologie sono molto differenti e, inoltre, esse hanno avuto successo per un concorso di circostanze veramente particolare, ritengo oggi del tutto irripetibile”.

“Io rifiuto con sdegno i tuoi discorsi da reazionario di merda”, si intromette con tono furioso una ragazzetta, sul volto invero assai grazioso della quale aleggia un’indignazione che soltanto un mio integrale annientamento potrebbe dissolvere, “a sentire te tutto è condannato all’immobilità, chi comanda non può non continuare a farlo e a quelli che da sempre hanno subito non resta che sottomettersi con santa pazienza alla loro condizione di schiavitù, perché, tanto, non c’è niente da fare, il mondo è com’è e non cambierà mai. Ma, dico io, in questa che credevo una riunione di compagni, dobbiamo proprio rassegnarci a subire simili raffiche di schifosi insulti, senza reagire?”

“Ma lei, cara ragazza, tira dalle mie sintetiche e provvisorie considerazioni conclusioni completamente sballate, che con le stesse logicamente non hanno proprio nulla da spartire!”

“Basta, adesso, non se ne può più di tutte queste fanfaluche del piffero, rivoluzione sì, rivoluzione no, gli oppressi si riscatteranno, gli oppressi è destino che continuino a razzolare nel letamaio. Io credevo di essere venuta a una festa e una festa è tale se si ascolta musica, si balla, si ride e ci si diverte!”

 

Stupito d’una rimostranza in fondo del tutto pertinente, che non avrei però supposto congruente con questo giovanile contesto di impetuosi astratti furori rivoluzionari, fisso sulla figura della dissacratrice uno sguardo che dovrebbe trasmetterle una pulsione di riconoscenza, in quanto appunto le sono davvero grato per avermi frenato da una esposizione polemica inopportuna avverso la mia ingiuriosa contestatrice.

Del resto, siffatta esortazione a cambiare risolutamente registro comportamentale incontra il consenso anche di svariati altri: quasi d’incanto ritmi d’una nota canzone egutturata dai Beatles erompono fragorosi da un potente riproduttore stereofonico di dischi e ad essi s’accodano, senza soluzione di continuità, altre forsennate esecuzioni diciamo così musicali, con ogni probabilità iscritte a caratteri cubitali nella cultura di tutti gli astanti, eccezion fatta dello scrivente, completamente all’oscuro delle medesime e rispetto ad esse irrimediabilmente alieno.

Dimentica d’incanto delle diatribe fino ad un momento prima coltivate e dei coinvolgimenti ideologici con tanto accanimento professati, l’intera giovanile mandria balla, dimenandosi con movimenti sincopati e convulsi, eppure all’unisono se complessivamente percepita.

Mi pare d’essere nella stanza il solo immobile ed estraneo alla collettiva esaltazione cinetica: incuriosito osservo fissamente la scena, con intensa partecipazione per altro solo euristica. La subitanea e protratta omogeneizzazione dei comportamenti espressivi si traduce in una sorta di assimilazione dei tratti somatici: tutti costoro non hanno ormai più figura di persona, nel significato ontologico che il termine vanta, ma agiscono come atomi indifferenziati di un insieme, del gruppo appunto in cui intenzionalmente si identificano, a livello di pura fisicità collettiva.

Resisto a reiterate sobillazioni a buttarmi anch’io nella mischia, fino a quando, forzato dal concorso di coalizzate provocazioni, vengo con mio totale sgradimento trascinato dentro la generale convulsione. Lì, più d’una delle fanciulle coribanti, a turno o all’unisono con altre frenetiche, travalica i confini del rispetto e del decoro, buttandomi addosso, con sfrontato invasamento, se stessa, ovvero sia la procacità ostentata delle proprie forme sobbalzanti e struscianti. Il corale frastornamento motorio, sostenuto ed eccitato dalla sarabanda delle musiche assatanate, con flusso ininterrotto propinate, dura e ferve per un tempo oltremodo espanso: poi, in stupefacente sincronia, crollano tutti al suolo ammucchiati, ciascuno arraffando per sé cuscini.

Ripreso fiato, dopo alcuni istanti di anelante immobilità, intenzionalmente tra di loro s’accostano vieppiù, come serpenti s’avvinghiano, a mucchi di membra indistinguibili nella semioscurità. M’accorgo quasi subito che di lì a poco quasi nessuno v’è non applicato in erotica degustazione. Intravedo coppie, evidentemente costituitesi fuor di gradimento dei casuali fattori, che per reciproca repulsione si scindono, si riformano in un batter d’occhio mediante altra combinazione.

Due braccia che da tergo m’avviluppano e stringono, due mani che si serrano a palpeggiarmi il costato: più che constatarne concretamente il corpo da cui si protendono lo vaticino: il repellente individuo, il grugno del quale è sputato identico a quello di Richelieu, mi sollecita ad abbandonarmi con lui a una fornicazione omosessuale. Schifato lo respingo con immediata violenza che per altro lo sciagurato pare gradire, poiché neppure tenta di divincolarsi fuori dalla presa delle mie dita che, afferratolo al collo, sono determinate a strangolarlo: lo allontano allora con uno spintone contro lo sterno, assai rude.

Il posto che il ributtante pervertito è stato costretto a disertare viene all’istante occupato da altro pretendente a un contatto ravvicinato con me; lascio fare perché si tratta stavolta fuor di dubbio di individuo di natura femminina, la visibilità in questo momento è assai scarsa ma giurerei che sia la ragazzotta la quale dianzi ha con eccitata virulenza contestato le mie argomentazioni sulla rivoluzione. Mi manipola l’aspirante a un rivolgimento radicale e violento degli attuali assetti sociali, tastando qua e là, insistente in specie nell’insidia alla postura inerte del membro che infatti reagisce alla provocazione inturgidendosi, contro la mia volontà che lo gradirebbe più capace di controllo.

Reputo in linea con la vigente evoluzione del coinvolgimento il non esimermi da alcune corrispondenze, vale a dire in buona sostanza un brancicamento privo di delicatezza e grazia delle cospicue forme, espanse a dire il vero già oltre il limite di una predisposizione all’adiposità che nel giro di pochi anni la renderà donna tarchiata ed oltremodo opima. Dipendesse da me soltanto non procederei più innanzi nell’esplorazione: lei però non condivide la mia riservatezza, tanto che m’afferra una mano e se l’infila dentro la scollatura del pullover tra le grosse mammelle fermentanti, l’altra se la ficca tra le cosce costringendo le dita ad insinuarsi sotto l’orlo delle mutandine entro l’intrico dei peli vulvari.

Le reciproche vellicazioni, analoghe suppongo alle molteplici che tutt’attorno fervono, si protraggono fino a quando costei non asseconda l’estro di una ancor più esclusiva comunicazione e manovra se stessa e il corpo mio, con l’evidente intento di acconciare entrambi alla penetrazione sessuale. Rammento a questo punto che, se pure nebulosamente, a me è stato affidata l’incombenza di contribuire al decoro e alla decenza di questa celebrazione, impegno che sto clamorosamente disattendendo: con rammarico, forse, ma con fermezza mi oppongo qui giunti alle ulteriori avances della barricadiera, mi isso ritto in piedi, focalizzo soltanto adesso, sola soletta in un angolo della sala, del tutto estranea all’orgia, la mia allieva Stefania che m’investe da lontano d’un vivido sorriso; non mi è agevole decifrarne l’interiore valenza, connotazione ironica e censoria per aver io con troppa proclività ceduto alla seduzione della formosa convitata oppure sollecitazione a non sprecare con altre i miei talenti amorosi di cui lei solamente detiene la titolarità; così farneticando, assorbito dalla cura di non calpestare corpi in fregola allacciati, pervengo all’uscio infine ed esco all’aperto.

 

M’allontano d’una decina di passi dal portone d’ingresso della villa e alla lettera rischio di franare addosso a una figura femminile semisdraiata su una panchina entro un folto di verzura; sussulto riconoscendo in essa la fanciulla Letizia che, così isolatasi dalla congrega degli altri festaioli, sommessamente piange. Attribuisco chissà perché a quella manifestazione una genesi futile e leggera, condizionato dalla quale l’interpello scherzosamente, domandandole se posso fare qualcosa per alleviare le sue pene. Palesemente si sforza di stoppare in sé l’emissione di lacrime e abbozza addirittura un sorriso.

“Ormai non ce la faccio più, sono veramente arrivata al culmine della sopportazione. Mi si è appiccicata addosso questa fama che mi possiede una voglia irrefrenabile di essere inculata e in continuazione, dico ogni santo giorno che viene e se ne va, qualcuno si diverte a tormentarmi, tirando in ballo questa mia supposta inclinazione. Sei anche tu convinto che io sia una sodomitica sfondata?”

“Ma ti pare? Non mi permetterei mai un apprezzamento del genere. Ciascuno è quello che è, checché dica la gente. Tra l’altro non ti conosco per niente, t’ho visto oggi pomeriggio per la prima volta …..”

“Sarà come sostieni tu che io sono quello che sono. Ma ho l’impressione che a furia di sentirmi buttare in faccia quello che non sono io finisca col dubitare di quello che sono e col credere di essere quello che non sono. Il buffo poi è che io mai e poi mai l’ho preso nel culo in tutta la mia vita, presti fede almeno tu a quello che affermo e se vuoi giuro?”

“No, no, non c’è affatto bisogno che tu giuri. Io sono completamente convinto della verità di quanto tu hai appena dichiarato!”

“Sono quasi certa che a rovinarmi così l’esistenza sia stato quel figlio di troia di Cesare. Mi ha per mesi infastidito domandandomi, tornando a chiedere e stradomandandomi di lasciarlo chiavare. E io no, ogni volta dura a rifiutare. Fino alla sera in cui, avevamo appena finito di ripassare la storia della filosofia per l’interrogazione dell’indomani, lui è tornato alla carica supplicandomi. Non so perché ho cambiato atteggiamento, forse spinta dalla speranza che lui dopo aver fatto si mettesse tranquillo e la smettesse di assillarmi. Solo che quell’idiota non aveva con sé il profilattico. M’ha ugualmente pregato di lasciarlo entrare dentro di me un momentino, giusto il tempo d’assestarmi un paio di colpetti, quindi se ne sarebbe venuto fuori intatto e sazio e l’avrebbe così smessa di seccarmi. Soltanto che quando s’è trovato sistemato nel posto che così tanto desiderava, sì, altro che un paio di colpetti! Non la finiva più di stantuffare, condendo il tutto con una raffica di grugniti porcini. A quel punto sono dovuta intervenire con la massima decisione, sradicandomi dalla pancia con una gran manata il suo affare. Esibiva una faccia per nient’affatto contenta. Ansimando ha però trovato la forza per soffiarmi che in fondo mi capiva; poiché però sarebbe stata una boiata pazzesca mollarlo così brutalmente interrotto, altro rimedio non c’era se non consentirgli di sfogarsi nel mio culo. Mi sono rifiutata inorridita, gli ho fatto intendere che, se ci provava, l’avrei strozzato. È stato per lui giocoforza rimettersi invenduta la mercanzia dentro le braghe. Ma si è vendicato. Dal giorno seguente infatti è cominciata a circolare la diceria che io sono una fanatica dell’inculata”.

Un istante dopo aver concluso la torrenziale esplicazione si ributta a piangere, singhiozzando con flusso man mano più irrefrenabile e sonoro. M’industrio nell’arte della consolazione, nella quale a dire il vero assai carente è la mia perizia. Sedutomi al suo fianco, mi limito a proferire rituali espressioni, ogni tanto passandole una mano sui capelli, in un simulacro di carezza compassionevole.

Mi si installa di lì a poco tra le braccia, sempre oltremodo lacrimante, circostanza che mi costringe a incentivare la pulsione della mia empatia nei suoi riguardi. Può essere che abbia esagerato, nell’estensione e nell’intimità dei toccamenti, o forse no: fatto sta che la fanciulla Letizia, pur seguitando nell’emissione della sua disperazione, integra ora il suo coinvolgimento primario con altra epifania di sé: ovvero sia baci scoccatimi sull’intera faccia con indugi intenzionali sulle labbra, strusciamento delle sue mammelle cospicue e sode contro il mio petto, inequivocabile investigazione manuale sopra la patta del mio apparato erogeno, che per l’ennesima volta s’è subito sottratto alla mia pretesa di dominio cerebrale delle sue sensazioni in autonomia lievitando sino al diapason della sua facoltà di turgore.

Le lascio la più completa iniziativa per quanto concerne gli sviluppi immediati dell’azione, ritiratomi in un atteggiamento di passività integrale, animato soltanto da curiosità non dissimulata circa l’evoluzione della tattile conversazione: sicché lei ha l’agio di estrarmi il virgulto, che ha assunto come anticipato forma e sostanza di vero e proprio inno a Priapo, fuori dalla sua tana, di manipolarlo con alacri dita deliziatrici, di saggiarne la sapidità avendolo inghiottito e picchiettandone la cuspide di linguate, d’esporre le natiche denudate abbaglianti per biancore alla brezza della sera incipiente.

A questo punto mi scrollo via di dosso il sopore prassico che m’intride e mi sottraggo all’evenienza del congiungimento, per null’affatto orgoglioso debbo dire dell’ennesima ostensione d’eroismo, un istante prima che l’invero strepitoso deretano cali ad accucciarsi sopra il mio inguine: mai saprò pertanto quali fossero le sue effettive intenzioni circa la collocazione imminente del mio disseminatore, se nella cavità anale – a conferma della sua propalata inclinazione sodomitica pur da lei con tanta indignazione rigettata – oppure nel sito della vulva tradizionalmente adibito a siffatte gustosissime confricazioni, la residenza nel quale del concupiscente l’emissione però, come è universalmente noto, non di rado diventa sorgente di fastidiosissime complicazioni.

In procinto di rientrare nella sala dianzi abbandonata, quasi per lo stesso motivo per cui ora mi reimmergo in essa, anche desideroso di rilevare le ulteriori mutazioni del festino, mi volto e getto l’occhio sulla figura ancora accucciata della fanciulla Letizia: ha posto fuor di vista nella veste le sue nudità tergali e mammellari, un attimo innanzi offerte alla mia delibazione, e di nuovo singhiozza con fluente e tumultuosa applicazione, evidenziando una attitudine alla disperazione lacrimante veramente spiccata.

 

Le esibizioni libidiche del branco adolescenziale, alle quali avevo reputato inappropriato accondiscendere con un mio personale contributo di fornicazione, si sono nel frattempo completamente esaurite, tanto da farmi sospettare d’essere incorso in un abbaglio allorché ne ho registrato l’accadimento: di nuovo presso che tutti i convitati interloquiscono, intrecciando un profluvio di dispute sopra un ventaglio magmatico di materie argomentative; ne capto lacerti scuciti e casuali, imposti alla mia percezione dal tono e dalla vicinanza delle vociferazioni.

“Sì, voi vi proclamate rivoluzionari, alieni da ogni compromesso con il potere, e poi sbavate per il gioco del calcio: non vi accorgete che tutta questa enfasi messa sopra i miserevoli casi di ventidue ragazzotti in mutande che esprimono se stessi menando pedate a una palla è una manovra subdola, veramente luciferina, architettata dalla classe dominante per distogliere le massi popolari dalla percezione dei loro reali problemi”.

“Ma no, agli USA non serve sempre e solo la forza militare per imporre all’intero mondo l’American way of life: ci sono anche altri strumenti, addirittura più pericolosi delle armi, perché una aggressione militare quasi inevitabilmente suscita in molti volontà di opposizione, mentre dell’insidia insita in altre strategie neppure ci si accorge ed anzi, le si gratifica del nostro consenso. Mi riferisco in particolare al cinema americano: anche i più accaniti anti yankee ne fruiscono a tonnellate, si lasciano impregnare fino al midollo dalla visione del mondo degli imperialisti, sicché il loro antiamericanismo dichiarato a parole è in effetti vanificato del tutto da una vera e propria connivenza con il nemico”.

“La parola droga adoperata in modo indiscriminato non aiuta di sicuro a capire i problemi che sottostanno al fenomeno e quindi fa di ogni erba, è proprio il caso di dirlo, un fascio di banalità e di menzogne. Perché occorre, innanzi tutto, distinguere tra droghe pesanti, che alla lunga ammazzano, e droghe leggere, che neppure danno assuefazione. Inoltre c’è un sacco di sostanze, delle quali nessuno si occupa seriamente, e che sono invece più micidiali anche dell’eroina”.

“Io non sono per niente, in questo, diversa dalle altre donne, anzi. Diciamocelo allora con franchezza, anche se ci piace fare le pauperiste e indossare stracci, sotto sotto però tutte stravediamo per i vestiti eleganti e prestigiosi e nulla c’è di più esaltante del possesso di un guardaroba ben fornito di capi firmati, tra i quali poter scegliere di volta in volta quello più adatto a seconda delle circostanze e delle occasioni. Inutile che vi scandalizziate per quel che sto affermando: chi sostiene il contrario lo fa solo perché è come la volpe della favola, che dichiara di non volere mangiare l’uva, alla quale non arriva, perché è acerba”.

“È perfettamente inutile che tu ti scaldi tanto: la tesi che difendi con tanto calore è condivisa da molti, quindi non ti distingui gran che professandola. E dunque, esiste una corrispondenza innegabile tra le caratteristiche complessive di ogni tempo ed epoca della storia e le espressioni artistiche che in essi si affermano e manifestano. Ma che cosa viene posto radicalmente in dubbio dalla migliore epistemologia contemporanea? Il collegamento meccanico e deterministico tra la struttura economica peculiare di ogni specifico momento storico e le manifestazioni culturali in senso lato e, più specificatamente, artistiche. Insomma, non si può per nulla escludere che Marx abbia preso un abbaglio nel ritenere che l’economia sia appunto la struttura e tutti gli altri fenomeni sociali sovrastrutture indotte dalla prima …..”.

“Ma piantala con il tuo sociologismo apocalittico! Certo, il colonialismo ne ha combinate di tutti i colori, di nefandezze, ma non esageriamo con l’autoflagellazione! È condivisibile la tesi che l’Occidente sfrutta i Paesi del terzo e quarto mondo; ma da qui a inferire che ogni europeo dovrebbe macerarsi in un groviglio di rimorsi per la politica di rapina quotidianamente perpetrata dalle nazioni ricche ed egoiste a scapito dei dannati della terra, beh mi sembra che la conclusione sia moralistica e puramente autolesionistica”.

 

Com’era senza fatica prevedibile, i festeggiamenti serali si svolgono in uno scenario completamente differente. La masnada adolescenziale ha tolto fino all’ultimo individuo le tende, i più riluttanti ad allontanarsi con adeguata spontaneità, dall’alcol ingurgitato resi tardi nella comprensione dell’opportunità, sono stati convinti con qualche rudezza a levarsi sollecitamente di torno.

Tutta e solo bella gente, stasera, attorno alla gran tavolata sontuosamente imbandita. Persone mature d’età, per lo più, stillanti autorevolezza per rango sociale e/o cospicuità della personale dovizia. Donne ingioiellate d’ogni risma e foggia, signore radiose d’avvenenza resa oltre natura folgorante da evidenti assai sapienti interventi manipolatori dei volti e delle chiome, altre malinconicamente passate di cottura, per l’inesorabile corrosione inflitta dal flusso degli anni, alle quali neppure la maestria degli acconciatori riesce a camuffare l’apparenza della sostanza.

Mi soffermo ammaliato a registrare la stupefacente metamorfosi di Stefania: ha dismesso la veste volutamente trasandata e consona alla contestazione generazionale dalla quale era fasciata nel pomeriggio e s’è inguainata in abbigliamento addirittura principesco che pure un individuo come me indifferente a siffatta oggettistica riconosce quale prodotto di alta sartoria, da lei d’altronde indossato con elegantissima naturalezza. Ovvio che sia al centro dell’attenzione di tutti: c’è fila al suo cospetto, di uomini e donne aspiranti all’omaggio augurale condito da bacio e corredato da lodi del resto perspicue per la leggiadria assoluta della sua figura.

Sopra una tavola espansa lungo una intera parete del salone, esposizione dei regali che gli invitati, e fors’anche altri non intervenuti alla celebrazione, hanno fatto pervenire alla festeggiata: m’accorgo solo ora d’essere probabilmente l’unico degli intervenuti a questo sontuoso simposio a mani completamente vuote: ma innanzi tutto io sono alieno da siffatte manifestazioni rituali, poi un mio eventuale presente avrebbe fatto la figura del parente poverissimo in mezzo a questa sciorinatura d’oggetti tutti evidenzianti il loro gran valore venale. Una voce invita tutti a fuoriuscire un momento dalla sala, prima di dar principio al banchetto, per ammirare lo straordinario dono offerto dai genitori a Stefania in occasione del suo accesso alla maggiore età: davvero favolosa la Jaguar parcheggiata innanzi alla facciata della villa, sfavillante di policrome luci riflesse, possesso immediato della ragazza – come precisa il padre – la quale se ne potrà avvalere non appena conseguita la patente di guida.

 

Non so se casualmente o a seguito di calcolata programmazione, mi ritrovo a tavola tra una dama diciamo pure attempata, abbigliata con sfarzosa eleganza – il profumo o forse la combinazione di aromi con i quali si è irrorata mi provoca all’istante un neppure leggero stordimento – e una signora sulla quarantina, subito inferisco, decisamente piacente, verso la quale pure fisicamente all’istante inclino, dopo una forse difficilmente percettibile mia presentazione, anche per distanziarmi dall’invadenza della prima commensale menzionata.

Costei cicaleccia infatti con sfrenatezza, fin dal momento in cui ci siamo trovati assisi fianco a fianco, dice cose a raffica di cui non intendo presso che nulla, vuoi per la sua tortuosità espositiva vuoi per mia estranietà rispetto ai referenti esperienziali ai quali allude; sicché, anche volendo con lei interloquire, non riuscirei in alcun modo a rapportarmi con qualche coerenza alle sue fonazioni. Del resto neppure è chiaro se io sia davvero il destinatario delle sue esternazioni o se la donna sia invece immersa in un tutto suo delirio monologante.

Allorché capito in una congrega di sconosciuti, io sono un conversatore neppure decente, anzi, alla lettera, mi si ottunde pure la facoltà di fonia. Diverso è il caso allorquando l’interlocutore mi si appalesa e ne pertinentizzo anche solo epidermicamente l’identità, la collocazione sociale, lo spessore culturale, gli orientamenti valoriali, ideologici, politici.

Con la signora ignota pertanto, dalle attraenti fattezze, capitatami per così dire a tiro, fuor di metafora non riesco a spiaccicare parola e con lei ho interloquito sì e no con alcuni evasivi monosillabi, oltre che con un paio di sorrisi, caricati dell’improbabile onere di attestare a lei disponibilità all’amicizia e gradimento per la sua presenza, quando prende lei risolutamente l’iniziativa e traccia la cornice di un quadro comunicativo entro il quale poi mi è del tutto agevole esprimermi.

“Forse nella confusione e nella precarietà del primo approccio non mi sono presentata con la necessaria precisione. Mi chiamo Isabella Seragnoli, sono la zia di Stefania, la bellissima festeggiata di questa sera che lei conosce bene. Mia nipote nutre per lei una vera e propria venerazione, io sono forse la sua maggiore confidente, sicché so molto di lei, che è un letterato di grande valore, capace di far intendere ai giovani come nessun altro il significato delle opere di poesia e artistiche, a sua volta scrittore di testi molto apprezzati da lettori e critici”.

“La ringrazio, signora, per la sua buona considerazione nei miei riguardi, ma non credo proprio di meritare le lodi che lei mi va rivolgendo, …..”.

“Invece sì, mi scusi se l’ho interrotta. Infatti, nel proferire il mio giudizio sulla sua qualità di scrittore non mi baso solamente sulle convinzioni in proposito di Stefania: mi sono documentata personalmente. Ho dunque letto tre suoi recenti racconti, pubblicati nelle riviste Nuovi Argomenti e Il Verri, una sua raccolta di poesie, contenuta in Quaderni di poesia contemporanea editi da Mondadori, saggi e recensioni proposti ancora da Il Verri, da Lingua e Stile e da Alfabeta. Ebbene, sono rimasta affascinata, dai testi narrativi, da quelli poetici, dai saggi critici. Sono adesso proprio contenta di potere conversare con lei viso a viso, ho chiesto io d’essere collocata al suo fianco a tavola: per ringraziarla con calore d’avermi fatta crescere culturalmente”.

“Le sue lodi nello stesso tempo lusingano la mia vanità e mi imbarazzano: perché, pur sensibile come tutti credo alle manifestazioni di apprezzamento, ho però netta coscienza dell’amplificazione contenuta nei suoi giudizi e del fatto che tra gli stessi e la qualità delle mie prove intercorre una cospicua distanza”.

“Mi permetta di dissentire: raramente io sbaglio nelle valutazioni che emetto e non formulo mai giudizi, in campo letterario e artistico, per mera intenzione di compiacenza, non corrispondente al reale convincimento in me fattosi sostanza. Lei non mi conosce ancora, ovviamente, ma io non sono una lettrice, come dire, mondana, che condivide i gusti e butta fuori sentenze convenzionali conformi agli schemi interpretativi della sua tribù sociale. No, penso con la mia testa, ho studiato con passione i fenomeni letterari e artistici e gli autori che vi hanno dato forma, all’università mi hanno guidato eccellenti maestri, mi sono laureata in lettere discutendo una tesi sul superamento dei canoni dell’ermetismo in Eugenio Montale con il professore Ezio Raimondi, mi era stato da lui offerto di seguitare dentro l’università a studiare la letteratura e ad insegnarla ma purtroppo i casi incontrollabili della vita non me l’hanno consentito, generando in me perciò un mai estinto rimpianto. Per sovra mercato anch’io, come moltissimi, scrivo poesie e pure dipingo, la qual cosa non mi autorizza a ritenermi né poetessa né pittrice, però ha di sicuro affinato in me la capacità di apprezzare nel loro giusto valore gli scrittori e gli artisti iconici”.

“Adesso sono io a dissentire da lei: infatti, entro le coordinate interpretative di cui mi avvalgo per rapportarmi ai testi confezionati secondo intenzioni estetiche, i prodotti che hanno struttura di versi o di quadri legittimano, per i loro autori, la designazione di poeti o pittori”.

“Allora anch’io”, si infrappone la dama attempata, che evidentemente riserva un orecchio anche alla mia conversazione con Isabella Seragnoli, pur essendo soprattutto impegnata in una risonante vociferazione con un altro commensale suo dirimpettaio, “allora anch’io, se mi metto a scarabocchiare parole sopra un foglio, andando a capo ogni tanto prima d’essere arrivata al bordo della pagina, posso fregiarmi dell’appellativo di grande poetessa e artista?”.

“Non ho detto quanto lei asserisce. Certamente, se lei abitualmente scrive versi e magari li pubblica può, ripeto, essere considerata una poetessa, e pure una artista. Ma naturalmente si può essere pessimi poeti e mediocrissimi artisti. Il giudizio di valore non è iscritto nella qualifica. Dipende in gran parte, per non dire esclusivamente, dall’apprezzamento dei fruitori, in particolare di quelli che sono considerati esperti in argomento e quindi influenzano la valutazione di tutti”.

 

Le mie parole, proferite con tono di voce alquanto smorzato, sono a malapena percettibili pure dalle mie due immediate vicine, all’istante annichilite dal vocio diffuso fermentante tutt’intorno, per risuonare sullo sfondo del quale dovrebbero equiparare l’energia d’emissione di quelle sparate dal tizio che siede al mio cospetto:

“Adesso basta, non se ne può proprio più, si è toccato davvero il fondo in questo annus horribilis della derelitta e disgraziata Italia. La ricetta per uscire fuori dall’attuale maledetto e pericolosissimo disastro? Non ne vedo che una: ripristinare ad ogni costo l’ordine, reprimere con la massima fermezza e con tutta la durezza necessaria ogni tentativo in corso di sovvertire la convivenza civile del Paese. Le Brigate Rosse si possono stroncare, togliendogli d’attorno l’acqua in cui navigano, ovvero sia la marmaglia dei fiancheggiatori, dei sostenitori occulti che le finanziano, delle menti perverse che gli scrivono la sceneggiatura operativa. Sì, proprio come fece Mussolini nel 1922, quando, per salvare l’Italia dalla minaccia dei Bolscevichi, non esitò a impugnare le armi e a sostenere i valori della Patria anche calpestando le leggi ormai moribonde dell’ordinamento liberal giolittiano …..”.

“Ecco che la sua anima fascista salta fuori, a proporre soluzioni più negative del male, tra l’altro già inesorabilmente condannate dalla storia!”

A contrastare le tesi egutturate dal mio dirimpettaio è insorta una femmina invasata come il suo contraddittore, magra all’inverosimile, già da me notata dianzi perché, invece di degustare le eccellenti portate già offerte alla nostra delibazione, fin dal primo momento si è distinta quale accanita fumatrice, aspirante protratte boccate tramite un vistoso bocchino.

“Caro lei, la rovina sarebbe completa se davvero prevalessero i suoi incitamenti dissennati. Il fatto è che lei, adesso come sempre del resto, non capisce un cazzo di quello che succede. La questione di fondo non è rappresentata dalle Brigate Rosse che mirano sì alla rivoluzione, ma un tipo di rivoluzione già visto e perdente. La risoluzione di tutti i problemi è contenuta nella filosofia del femminismo. Voi uomini, di destra, di sinistra, di centro, di casini ne avete già combinati anche troppi. Tempo è che vi mettiate da parte, rossi di vergogna. La Terra intera sarà redenta quando il potere saranno le donne ad esercitarlo e voi uomini uscirete di scena, con il vostro sporco maschilismo messo a dormire dentro le mutande. Ecco, la castrazione universale dei maschi che detengono il potere e di quelli che smaniano per sostituire se stessi ai primi è l’unico rimedio adottabile per dare nuovo senso e pace finalmente a questo povero mondo!”

Il tono della fonazione emessa dalla femminista progressivamente s’acuisce fino a uno strido isterico spaccatimpani: il catastrofista nostalgico del Fascismo attende fremente che quella ponga la sordina alla sua furibonda esternazione per replicare e si può arguire dalla configurazione attuale della controversia che non saranno rose e fiori argomentativi. Ne previene la performance un terzo commensale, da me dianzi notato per l’autorevolezza che la sua persona irradia, un notabile democristiano, mi è stato detto da Isabella Seragnoli, deputato al Parlamento, del quale ci si aspetta una imminente fulminea ascesa nel firmamento del potere politico nazionale (ho letto su di lui notizie nei giornali ed anche suoi interventi sui fatti che stanno costellando quest’anno drammatico).

Finora ha alternato conciliaboli per così dire privati, sottovoce, con svariati convitati al banchetto, forse postulanti, venuti comunque a conferire con lui in atteggiamento di servile condiscendenza e di ostentata riconoscenza, a sentenze stentoree, approvate con compiaciuta condivisione dagli astanti.

“Suvvia, caro amico e deliziosa sostenitrice del potere alle donne, non accanitevi così. In fondo siete entrambi ben consapevoli del fatto che non si arriva da nessuna parte, non si dà risoluzione ad alcun problema se si persegue una politica di tipo estremistico.

Sappiamo tutti infatti che per consentire a questa povera umanità di tirare avanti, per impedire alla nostra disgraziata eppur amatissima Patria di andare a fondo, occorre procedere a piccoli passi, non essere mai troppo drastici nelle convinzioni e nelle scelte ma, fissati i principi inderogabili in quanto indispensabili per la comune convivenza (quello che potremmo anche definire il minimo etico), procedere con flessibilità, sempre mantenendosi in equilibrio rispetto alla tentazione delle opzioni radicali.

Adesso qualcuno di voi mi accuserà di stare tirando acqua al mio mulino, ma non importa. Analizzate con rigore intellettuale la funzione esercitata dalla Democrazia Cristiana negli ultimi trent’anni e oltre, in cui si è accollata l’onere di governare questo squinternato Paese: essa, per il perseguimento fermissimo del bene comune, ha sempre cercato di mantenersi al centro, di rifuggire dagli opposti estremismi, anche a costo di calamitare su di sé l’avversione degli uni e degli altri. Ma proprio tale sua assidua ricerca di una collocazione mediana le ha consentito di coagulare e conservare il consenso della maggioranza della Nazione, così togliendo con la più lucida saggezza spazio d’iniziativa e forza d’eversione all’una e all’altra polarità.

Anche nella sciaguratissima vicenda che ci incombe addosso e tutti ci angoscia del sovvertimento del nostro ordine democratico perpetrato dalle famigerate Brigate Rosse, la Democrazia Cristiana non è venuta meno a questo suo principio di prudenza e di fermezza, addirittura accettando che il proprio figlio migliore e più rappresentativo soccombesse per fedeltà a tale imperativo etico.

Ma basta, su questa complessa questione gradirei molto d’ascoltare l’illuminata opinione di monsignor Battaglini, il quale si nutre con la moderazione di un asceta e finora ha dispensato i tesori della sua sapientia cordis et mentis con voce impercettibile soltanto ai fortunati che lo contornano”.

 

Conosco l’interpellato, ho avuto più volte occasione di incrociarne i passi, in un paio di circostanze sono stato anche suo interlocutore nel contesto di tavole rotonde su problematiche letterarie e filosofiche. È forse il più rinomato teologo della curia bolognese, attualmente il campo di studio e operativo in cui maggiormente si applica è l’apertura verso le altre religioni, l’Islam in specie.

Non sembra di primo acchito incline a corrispondere all’istanza rivoltagli, immerso in una introiezione in sé totalizzante, per via della quale sospetto che neppure abbia inteso la richiesta. Ma a un certo punto la sua voce sacerdotale e bassissima sommuove il silenzio calato sulla tavolata, al quale conferisce ulteriore consistenza l’omissione di ogni rumore, consueto in siffatte circostanze, di posate impugnate e bocche masticanti.

“Mi esoneri, onorevole, mi esoneri da incursioni in ambiti di pensiero e d’azione che mi sono del tutto estranei, i quali, allorché ho deciso d’assecondare e di concretizzare la mia vocazione alla vita religiosa, mi sono ripromesso di escludere dal novero delle mie inclinazioni ed attività, lasciandone ad altri di me più degni e capaci l’esercizio, ad essi assicurando per altro il sostegno assiduo della mia preghiera.

In argomento posso soltanto esprimermi ricorrendo al fulminante aforisma del filosofo Wittgenstein, il quale asserisce che su ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Forse nessuno si è mai preoccupato di instaurare il collegamento che io qui vi propongo, ma direi proprio che l’esortazione del filosofo austriaco è la versione laica della raccomandazione che Nostro Signore fece a sant’Agostino.

Narra in proposito un aneddoto che l’eccelso dottore, assorbito in riflessioni miranti a illuminare il mistero della Santissima Trinità, camminava lungo la riva del mare. A un certo punto si imbatté in un fanciullo il quale, con un secchiello, prendeva l’acqua dal mare e la riversava, senza mai interrompere l’esercizio, in una buca da lui scavata. Incuriosito, il grande pensatore cristiano gli chiese: ‘Che cosa fai, bambino?’. E colui: ‘Mi propongo di vuotare tutta l’acqua del mare nella buca e così prosciugarlo’. Sant’Agostino, sorridendo, gli disse: ‘Bambino, tu stai compiendo una fatica inutile. Mai e poi mai riuscirai a trasferire tutta l’acqua del mare nella piccola buca che hai scavato’. A tale osservazione il fanciullo, anch’egli sorridendo, ribatté: ‘Tu credi? Ebbene, io ti dico che è più facile che io riesca con questo secchiello a vuotare l’intero mare nella buca che tu a chiarire il mistero della Santissima Trinità’. Il bambino era un angelo e d’incanto sparì, lasciando il santo filosofo solo al cospetto della sua incapacità (che è poi di tutta l’umanità) di dare risposta ai supremi interrogativi.

Volete proprio che in merito ai fatti della convivenza umana sulla terra io vi manifesti una mia debolissima opinione? Ebbene, ci sarà una lievitazione del bene di tutti e di ciascuno quando le tre grandi religioni monoteiste anteporranno al perseguimento della pulsione alla differenziazione e alla separatezza la consapevolezza delle loro profondissime affinità. Yahweh, Dio e Allah, infatti, sono, per esplicito riconoscimento degli adepti delle tre religioni, nomi diversi per significare il medesimo Essere e l’Antico Testamento è, per Ebraismo, Cristianesimo e Islam, il libro in cui l’Altissimo ha posto la prima comune Rivelazione.

Quale via dunque dovrebbero percorrere i fedeli delle tre grandi religioni monoteiste (ma a tale sforzo salvifico dovrebbero associarsi anche coloro che confidano nella verità e nella energia redentiva delle altre religioni) per contribuire al riscatto dell’umanità, ormai pencolante sull’abisso della propria estrema perdizione? In primo luogo quella del riconoscimento profondo della suprema fratellanza in Abramo. Quindi l’associazione di tutti nella preghiera, assidua e al massimo confidenziale nel suo intatto amore per tutti gli uomini senza distinzione di razza, cultura e religione, al Signore Altissimo (benedetto sia il suo nome)”.

“Monsignore, le chiedo la sua illuminata interpretazione di una constatazione che mi ha colpito moltissimo”, interviene un commensale da me finora non notato, assiso quasi al cospetto dell’ecclesiastico, “vale a dire il discorso pronunciato da papa Paolo VI in occasione dei funerali di Aldo Moro, nel passaggio in cui il pontefice ha testualmente asserito ‘Tu non hai esaudito la nostra supplica per la incolumità di Aldo Moro, di questo Uomo buono, mite, saggio, innocente ed amico’. Ecco, io – come tanti altri del resto – ho provato un profondo e struggente turbamento, perché m’è parso che le labbra del Vicario di Cristo abbiano proferito una sorta di accorato rimprovero per l’insensibilità dell’Onnipotente, rimasto sordo a tutte le suppliche, anche a quelle del massimo rappresentante della sua religione, affinché intervenisse a strappare Moro dalle grinfie dei suoi carnefici”.

“Chi sono io per permettermi di frappormi addirittura tra il Sommo Pontefice e il Signore Altissimo (benedetto sia il suo nome)?”, obietta monsignor Battaglini con inusitata vivacità espressiva al suo interlocutore, a testimonianza probabile di un certo suo risentimento per l’inopportunità della questione postagli, “E dunque in merito a ciò taccio. Non senza però mettere in giusta evidenza che non di discorso, nel significato secolare del termine, si è trattato, bensì di preghiera. La quale esordisce con parole che esprimono nel contempo il culmine massimo del dolore umano, per le catastrofi che flagellano l’umanità dal momento sciagurato della prima colpa, e la totalità della confidenza, dell’abbandono alla suprema giustizia del Signore dei mondi e del Regno celeste: ‘Ed ora le nostre labbra, chiuse come da un enorme ostacolo, simile alla grossa pietra rotolata all’ingresso del sepolcro di Cristo, vogliono aprirsi per esprimere il «De profundis», il grido cioè ed il pianto dell’ineffabile dolore con cui la tragedia presente soffoca la nostra voce. E chi può ascoltare il nostro lamento, se non ancora Tu, o Dio della vita e della morte?’. E dopo l’affermazione che lei ha, forse con qualche malizia, estrapolato dal contesto, la preghiera seguita il suo straordinario cammino con questa mirabile, consolatrice epifania di verità: ‘ma Tu, o Signore, non hai abbandonato il suo spirito immortale, segnato dalla Fede nel Cristo, che è la risurrezione e la vita’ ”.

 

Con progressiva frequenza io mi sorprendo del tutto alieno nei riguardi della festa, assorto in mie personali elucubrazioni che nulla hanno da spartire con quanto qui ed ora accade. Non è la prima volta che mi succede, anzi direi che è per me prassi comportamentale ricorrente, allorché mi trovo immerso in occorrenze esistenziali avulse dalla mia abituale modalità d’esistere e di pensare. In siffatte occasioni taglio anche sensorialmente i ponti con la realtà che mi ingloba, non percepisco più i discorsi che tutt’attorno si snocciolano imperterriti, non rispondo a quanti tentano di intavolare una chiacchierata con me, oppure butto fuori fonazioni completamente eccentriche rispetto al filo argomentativo della conversazione che mi vorrebbe coinvolgere.

Dalla distanza in espansione della mia estraneità, divenuto man mano puro occhio, contemplo i commensali che ancora si accaniscono in degustazioni plurime, per nulla affatto osteggiati nella loro intatta golosità dalla mostruosa quantità di portate già spazzate via: mi sgorga fuor di mente, e nella contemplazione della stessa mi compiaccio, l’immagine gaddiana dei manichini ossibuchivori.

Adesso si attacca col ballo, clou della ricorrenza celebrativa. Attratte dal richiamo della musica che ha cominciato a fluire o forse perché a siffatto esercizio previsto e preteso sarebbe scorretto sottrarsi, parecchie coppie di individui maschili e femminili si sono divelte dalla tavolata e, ricompostesi sulla pista, hanno cominciato, secondo le regole del tipo di danza, a dimenarsi.

Tra i riti, le consuetudini, le credenze che pervicacemente aborro, il ballo occupa stabilmente uno dei primi posti nella classifica delle mie avversioni. Non so muovere i piedi e il corpo in aderenza alle tecniche costitutive di nessuno di essi. Ma non di mera imperizia gestuale si tratta, bensì di una ripulsa per dir così ontologica della categoria espressiva “danza”, per impossibilità di comprensione dei suoi fondamenti antropologici.

Rifiuto pertanto recisamente una catena di avances e me ne sto in disparte, con una probabile espressione beffarda incisa in faccia, ad osservare coloro che si esibiscono. Purtroppo però, quando a pretendere con reiterata insistenza di intrecciare carole con me è Stefania, non mi sorregge la risolutezza di svellermi duramente dalla sua mano che mi sollecita e mi lascio trascinare entro la masnada dei coribanti. Nel bel mezzo della calca tengo la ragazza tra le braccia, già di suo strettamente avvinghiatasi a me, mentre i miei piedi disegnano goffe figure, del tutto estranee alle peculiarità ritmiche e armoniche dei brani musicali eseguiti.

Stefania mi sussurra qualcosa in un orecchio, non con voce smorzata per altro, dovendo sormontare l’intensità dei suoni che ci avviluppano:

“Poiché giusto oggi faccio ingresso nella maggiore età, quindi sono responsabile dei miei comportamenti e delle scelte che compio, non posso più nasconderti che fin dal primo momento in cui mi sei comparso davanti mi sono innamorata pazzamente di te, tanto da star male quando mi sei lontano e da sentirmi in paradiso ogni volta che ti ho vicino, come in questo momento meraviglioso. Io non so quasi nulla di te, anche se ho cercato di informarmi sulla tua vita, sulle donne che frequenti. Mi basta per ora sapere che non sei sposato e che quindi posso sperare di diventare io la tua donna. Adesso che sai cosa tu rappresenti per me, ho una confessione e una richiesta da farti. Ecco, insomma, io credo di essere l’unica ragazza del mio giro che mai è andata a letto con un uomo, la sola vergine cioè, come si dice, in una vasta compagnia di amiche le quali non fanno altro che raccontarmi le loro imprese amatorie. Bisogna che questa storia abbia fine, altrimenti arriverò a sentirmi come una condannata per la vita intera allo stato di bambina. Capisci cosa ti chiedo, anzi imploro da te? È indispensabile che sia tu a trasformarmi sessualmente in donna e ciò quanto prima, magari stanotte stessa, e la cosa sarebbe il più grande e prezioso regalo ricevuto per il mio compleanno”.

Tace adesso, la intuisco nel contempo sollevata per il gran peso che s’è scrollato via di dosso, con la partecipazione a me del sentimento d’amore che l’intride e del proposito messo a punto, e in fibrillazione nell’attesa degli sviluppi suscitati dallo svelamento.

“Stefania, la tua rivelazione mi coglie del tutto di sorpresa e non so come risponderti. Certamente anche tu piaci a me e molto, dal primo momento in cui mi è capitato di incontrarti. Sei bellissima, dotata di una intelligenza rara e capace di ragionamenti e atteggiamenti quali la maggior parte dei tuoi amici e coetanei di sicuro non è in grado di cavare da sé. Ma bisogna anche tenere conto di alcune circostanze ostative assai pesanti: ho parecchi anni più di te e, soprattutto, io sono un professore squattrinato mentre tu, una vera e propria ereditiera: che cosa concluderebbe la gente se io mi buttassi a pesce su di te? Che ho messo l’occhio sulla tua ricchezza nella speranza di condividerla. È meglio che aspettiamo: intanto spero proprio che continueremo a frequentarci, approfittando delle lezioni che mi è stato chiesto di darti”.

 La ragazza non pare entusiasta della mia cautelosa corrispondenza alla sua esplicita avance: sono del tutto consapevole d’aver fatto ricorso a una diplomazia da meschinello, ma siffatta è la mia costituzione psico-fisica, se mi si sobilla a buttarmi in qualsivoglia impresa a tamburo battente io mi sottraggo, frappongo mille distinguo e una marea di esitazioni convergenti se pure ciascuna in sé di configurazione differente.

Lei tuttavia non demorde per via delle parole evasive con le quali ho obiettato, s’avviluppa a me con stretta ancor più avvolgente di quella finora attivata, struscia contro il mio inguine con inequivocabile proposito di provocazione il pube e mi bacia sul collo, anzi lo lecca con viscosa lingua. Francamente non so come uscire dall’imbarazzante coinvolgimento, tra l’altro essendo palese che proprio tutti ci gettano addosso occhi assai maliziosi: io mi sforzo, senza sgarberia ma con risolutezza, di distanziare i nostri corpi con una intercapedine di vuoto, ma invano, Stefania mi s’avvinghia ulteriormente a mo’ di piovra, intenzionata a far intendere fuor d’ogni dubbio a ciascuno degli astanti che io sono definitivamente preda sua.

S’è accorta sua zia Isabella della situazione assai problematica e lievitante, del garbuglio in cui mi trovo senza scampo impegolato? Fatto sta che, scivolando tra i corpi danzanti, si è spinta fino al nostro cospetto e, intrisa di sorriso, rimprovera imparzialmente me e la nipote, in forma di scherzo che non cela però del tutto la probabile premeditazione da cui muove:

“Caro Dario, lei non può pretendere di monopolizzare tutta per sé la regina della festa: altri hanno il diritto di godere della gioia di ballare con lei. E tu, Stefania, non considerarti padrona in esclusiva dell’ospite più pregiato: adesso lo cedi a me, voglio anch’io approfittare di questa sua momentanea rassegnazione a compiere i gesti della danza, cosa che si nota benissimo non sta in cima alle sue predilezioni”.

Transitato ad altro abbraccio, esalo un profondo sospiro di sollievo: ma di lì a un batter d’occhio il comportamento dell’avvenente signora si palesa non dissimile da quello della nipote: s’è nella sua interezza incollata a me, conosco tattilmente il tutto e le parti delle sue forme procaci, la reciproca compenetrazione dei corpi non mi consente di distogliere lo sguardo dalle sue espanse mammelle, ostentate in buona porzione fuor della veste, la sua lingua mi vellica i lobi dell’uno e dell’altro orecchio.

Stavolta non rilutto al destino, però, mi dispiace per Stefania ma questa qui non me la lascio scappare; intanto, fingendo che la mossa sia necessitata dalle peculiarità della stupida danza in progress, le brancico entrambe le natiche, in sintonia di gesti con i suoi affondi di coscia tra le mie gambe.

“Senti, mi frulla in testa un’idea magnifica. Perché, a conclusione di questa festa, non scendi in città con me e non vieni a casa mia? M’è presa un’ansia tremenda di conoscere quanto prima il tuo giudizio critico sulle cose che vado scrivendo e dipingendo: ti chiedo, anzi, ti imploro, di leggere subito i miei versi, poi magari, considerata l’ora e l’inevitabile stanchezza, ti fermi a dormire da me”.

Per coazione inveterata della mia natura pospositiva, non accetto su due piedi entusiastico: indago l’eventualità per una manciata di secondi e quindi corrispondo in positivo, non essendo aggallata alcuna ragione plausibile per declinare la succulenta offerta.

 

Estraniatomi infine dal flusso delle danze tuttora fervente, uscito all’aperto discorro stancamente con il padrone di casa. Un tizio, esibizionista e sicuramente alticcio (regge in mano una bottiglia e nell’altra un calice), arabesca passi del valzer in esecuzione sul bordo della piscina: non saprei dire se per accentuazione volontaria della sciocca esposizione di sé in atto o per perdita dell’equilibrio causata dall’ubriachezza, ci si butta o ci casca dentro con tonfo squillante e plateale.

L’individuo che a seguire si tuffa nella piscina con ogni probabilità lo fa animato dalla volontà di trarre a salvamento il mentecatto avvinazzato: il suo gesto però innesca una sequela di balzi entro l’acqua, venendo fulmineamente l’occorrenza percepita come gioco inedito oltremodo divertente, in grado di rianimare una nottata ormai prossima allo sfinimento; anche i ballerini piantano in asso coppia dopo coppia l’orchestra e quasi tutti si slanciano squittendo a mollo vestiti.

Mentre osservo nettamente disgustato gli starnazzanti, capita che un dannato fottuto mi rifila una spinta violentissima la quale, essendo io distante anni luce dalla supposizione di una siffatta carognata, mi scaraventa in acqua. Immediatamente proferisco bestemmie atroci in forma di urla sovrumane che sovrastano senza ombra di contenzioso ogni altra emissione sonora. Sempre strepitando certifico al figlio di puttana che mi ha messo le mani addosso uno strangolamento immediato se riesco a scovarlo o ha la temerarietà di manifestarsi. La mia incazzatura sovrana è motivata anche dalla costernazione per lo scempio che sta subendo il mio vestito, proprio il migliore per non dire l’unico già decoroso che possiedo, presso che nuovo in quanto indossato soltanto in rare importanti occasioni.

Appena i fumi dell’ira funesta mi si dileguano un poco dalla testa, mi ritrovo al fianco l’allieva innamorata, forse pure lei scagliata a mollo dall’iniziativa di qualche deficiente oppure venuta giù di sua spontanea volontà, magari per condividere la mia sorte. Ci issiamo fuori, sul bordo della vasca, aiutandoci reciprocamente: senza frapporre indugio Stefania approfitta della confusione per ripigliare il controllo della mia persona; mi trascina tirandomi con grande energia verso l’interno della casa:

“Presto, vieni, rifugiamoci in camera mia, dove avremo la possibilità di asciugarci ben bene!”

Chiude a chiave la porta, in un batter d’occhio è integralmente nuda, ammucchiato con noncuranza in un cantuccio lo straccetto madido che era fino a pochi minuti addietro un abito di haute couture. A dissipazione della mia riluttanza provvede prevalentemente lei a cavarmi di dosso gli indumenti fradici: m’affretto ad attenuare con un telo lì presso reperito la messa in scena totale della mia nudità.

Vigorosamente, con sistematica applicazione reciprocamente ci frizioniamo, almeno io determinato a privilegiare l’intento funzionale, rispetto alle recondite indubitabili implicazioni insite nella contingenza.

Ma Stefania non mi lascia completare l’opera intrapresa sul suo corpo: raggiunge il letto, vi si distende, divarica le cosce, m’offre in visione il suo magnifico pube dischiuso, un perfetto triangolo di peli nerissimi, nella pienezza del loro rigoglio.

“Presto, vieni qui anche tu, prendimi tutta, entra dentro di me, non voglio più ritardare neanche di un istante il momento in cui sarò finalmente tua, un’occasione favorevole come questa poi difficilmente ci capiterà ancora nell’immediato!”

Non nego d’essere tentato fino al culmine dell’umana resistenza, eppure tengo duro tutto malgrado, non raccolgo l’invito a papparmi questo succulentissimo boccone, mi limito alla contemplazione commossa di tanta sontuosa beltà solo per me sciorinata; unica deroga al divieto eroicamente issato avverso la fruizione della incombente delizia che poco appresso consento al mio desiderio è una leggera carezza che prende le mossa da un ginocchio, percorre l’intera coscia, ascende sul ventre, scivola nella depressione dell’ombelico, esaurisce la sua tenuità conoscitiva sopra entrambe le collinette dei seni, marginalizzando la circostanza che all’istante ambedue i capezzoli si fanno sentire, dilatatisi allo zenit del loro turgore.

“Stefania, dolcissima e incantevole amica mia, se io adesso ti zompassi addosso come un orso e in quattro e quattr’otto ti facessi la festa, poi tu non saresti affatto contenta, ne sono sicuro, sapendo quanto tu sia sensibile e incline a rielaborare la realtà tramite i filtri del sogno e del ricordo. Infatti, il primo atto d’amore per una donna del tuo valore dev’essere un evento mirabile e memorabile. Se lo consumassimo qui e ora in fretta e furia non sarebbe affatto tale. Non credere che io ti stia dicendo queste cose a cuor leggero e tranquillo tranquillo: no, muoio letteralmente dalla voglia di mettere in comunicazione intima i nostri corpi e a questo punto ritengo indispensabile che ciò accada quanto prima: in un contesto al massimo propizio però, sì che tu (ed anch’io) possa vivere l’esperienza non soltanto traendone piacere ma nella piena consapevolezza di stare delibando una occasione di valore assoluto, capace di riverberare una luce vividissima sull’intera esistenza”.

Non so se la tirata abbia abbastanza forza da convincerla senz’altro. Ad ogni modo adesso mi pare sostanzialmente rassegnata alla rinuncia. Ma le cose si imbrogliano nuovamente di lì a un batter di ciglia: s’è divelta dal letto, sempre ovviamente nuda ritta in piedi al mio cospetto mi cattura tra le braccia, incolla le sue labbra alla mia bocca, spinge a tutto spiano per entrare con la lingua, mi lascio possedere, il bacio profondissimo sembra destinato a una protrazione sine die. Intanto, con moto alternativamente sussultorio e ondulatorio, mi sfrega la vulva contro il pene, il quale poveraccio reagisce alla provocazione come natura solitamente comanda in siffatte evenienze, malgrado la mia compatta determinazione cerebrale di mantenerlo estraneo. Riesce a insinuarselo tra le grandi labbra; io non ostacolo brutalmente le sue manovre ma mi mantengo nella massima allerta: lei si prodiga affinché l’organo vieppiù affondi nel suo orifizio, io in immediata sequenza d’azione lo faccio rinculare fino all’anticamera, invariabilmente dopo ogni reiterata iniziativa della vagina per dare incondizionato accesso all’affare in lei.

In tutta onestà non so quanto il tira e molla può seguitare a esplicarsi così, senza che qualcosa di irreversibile finisca con l’accadere, intendo dire: per buona sorte alla dilemmatica compromissione pone di botto termine lo strepito di nocche battute contro la porta: è un servitore della casa, venuto a portarmi biancheria e un vestito, a prendere i miei indumenti strapazzati per accurato sollecito ripristino.

 

Approfitto dell’intromissione per squagliarmela, messomi addosso in fretta e furia il vestiario recatomi, d’altronde giusto della mia misura e senz’altro di qualità più pregiata del mio finito a mollo. Vago per la casa perplesso e non poco scombussolato, assillato da un rovello circa il comportamento da tenere con Isabella Seragnoli, se è opportuno che io la cerchi oppure se meglio è che io pianti il tutto qui e tolga le tende fuori da questa avventura, dentro la quale sto calato da fin troppo tempo.

M’imbatto in altro domestico, il quale stranamente pare riconoscermi:

“Signore, finalmente l’ho trovato. Donna Isabella chiede di lei e mi ha comandato di condurla dove attualmente l’attende”.

Si dilegua senza più proferire motto, dinnanzi a una porta chiusa che suppongo di dovere varcare da solo. Ottenuto da voce femminile ansiosa il permesso d’avanzare, entro: da capo a piedi nuda anche lei, intenta a sfregarsi addosso un telo da bagno, evidentemente per asciugamento avendo pure lei partecipato al tuffo collettivo nella piscina. Mi propone scherzosamente di non stare immobile e impalato come uno del tutto indeciso sul da farsi, ma di soccorrerla nell’adempimento in atto: ottempero all’istante, all’apice della meraviglia però per questa reiterazione della circostanza appena convissuta con sua nipote Stefania.

La donna si alza dallo sgabello su cui stava accovacciata, m’attrae verso di sé, mi stringe contro le sue forme sontuose. Entro il contesto del gran bacio che fatalmente segue, estrattomi dalla patta il virgulto ridivenuto granitico, replica anche lei con me l’azione appena intrapresa dalla congiunta. Ma, allorché la poetessa traffica con le dita nella selva dei propri peli vulvari per rendere con ogni agio percorribile il cammino verso l’interno all’ospite strabiliato, costui notifica al centro di controllo lassù nel cervello che straccio di giustificazione non v’è, stavolta, a trattenerlo dall’esplorazione libidica offertagli.

Più che un atto di comunione amorosa, intercorre tra noi due un vero e proprio conflitto: tanta è la frenesia della donna mentre l’impatto si snoda e la sua determinazione a divorarmi con foga propensa alla demolizione fisica dell’aggressore aggredito. Giubilante l’animale s’effonde, lei inneggiante a gola spiegata nella beatitudine della voluttà. A questo punto vorrei disimpegnarmi senza frapporre altro indugio dall’intrico, balzatami in mente chissà perché l’immagine di Stefania, piantata abbastanza brutalmente in asso.

 

Nettamente assonnato, del resto l’alba oltre una nottata tutta trascorsa ad occhi aperti è prossima alle porte, guido con prudenza la mia vetturetta usata, appena acquistata a rate, lungo la tortuosa strada collinare a saliscendi che mena verso la città sottostante; al mio fianco Isabella tace, forse assopita.

“Ho proprio gradito senza riserve il gustosissimo antipasto che assieme abbiamo allestito”, mi ha certificato prima di ammutire, “è sono certa che, fin dall’estremo respiro di questa gran notte agli sgoccioli, ci ammanniremo in simbiosi banchetti d’amore memorabili. Credimi, ne ho un bisogno addirittura disperato, con un uomo di alto valore come tu sei, per riconferire alla mia esistenza un orientamento positivo, dopo un lungo periodo nero in cui mi è andato tutto storto”.

D’impulso mi è scesa dal cervello nella bocca una domanda: e la poesia, allora? Ma ho subito zittito l’inclinazione, convenendo con me stesso circa l’opportunità di non dare troppo spazio o rilevanza alla questione, con arzigogoli investigativi oziosi.